La casa della comunità: opportunità per abitare la complessità - Mauro Ceruti



Mauro Ceruti Sintesi dell’intervento alla assemblea della Associazione Prima la Comunità del 17 aprile 2021 www.primalacomunita.it

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Abitare la nostra casa della comunità, la nostra terra come casa della comunità e della salute vuole dire abitare e imparare ad abitare con sapienza la complessità della nostra vita, della nostra casa.

E partiamo dall’oggi, dalla crisi della pandemia che stiamo vivendo, che si è manifestata subito come fenomeno complesso, una crisi fatta di tante dimensioni intrecciate, questo significa complessità, non è la complicazione, complesso è qualcosa che emerge dall’intreccio di tante dimensioni che non possono essere separate le une dalle altre, se lo facessimo creiamo nuova crisi.

La crisi attuale è certamente sanitaria, ma non solo, se la concepiamo solo così rischiamo di perderne il senso: è una crisi anche biologica, ecologica, scientifica, economica, urbanistica, antropologica, psicologica, esistenziale, spirituale.

La malattia e la cura della nostra casa sono intrecciate, non si può separare la cura della malattia dalla cura della casa. Non si può separare l’interpretazione di quello che stiamo vivendo, l’interpretazione della malattia della crisi della salute, dalla malattia e dalla crisi della nostra casa. E per questo ancora una volta la sfida della complessità che ci è presentata dalla nostra crisi, si è imposta e si impone, e di questo dobbiamo prendere consapevolezza, come una impossibilità a semplificare un tessuto inestricabile di concause e di interdipendenze.

E così il secondo spunto che voglio dare alla nostra riflessione ha a che fare con la crisi dell’educazione, con la crisi che noi viviamo e che possiamo definire una crisi cognitiva e culturale, che è quella più profonda. Ed è la difficoltà a concepire la complessità, l’intreccio delle tante dimensioni che caratterizzano la nostra vita la nostra comunità, la nostra salute.

L’ostacolo ad abitare la complessità del nostro tempo e del nostro mondo, non sta più nella nostra ignoranza. Fino a poco tempo fa la risposta alle crisi dipendeva dalla mancanza di conoscenza. L’ostacolo ad abitare la complessità si annida soprattutto nella nostra conoscenza, si annida nel modo in cui le nostre conoscenze sono prodotte e sono organizzate. La specializzazione disciplinare, che ha fatto sì che il ‘900 sia stato il secolo dell’esplosione delle conoscenze ed informazioni, si è prodotta attraverso una forma nuova conoscenza scientifica in particolare, in particolare lo specialismo, straordinaria fonte di successo per le conoscenze. Ma oggi lo specialismo sta diventando un boomerang, l’organizzazione specialistica, la produzione iperspecializzata delle conoscenze ostacola lo sviluppo della conoscenza stessa, la valorizzazione delle nostre conoscenze.

E del resto le nostre scuole, le nostre università, persino la divulgazione sui media, ci insegnano a separare i saperi e le discipline, non a collegarle. E qui sta la crisi in cui si trovano gli esperti. La crisi della politica che affida gli esperti la soluzione dei problemi. E gli esperti che frammentano il loro sguardo sul mondo e che quindi non sanno concepire il vero problema del nostro mondo che è la complessità, la globalità dei suoi problemi.

E quindi questo modo di pensare che si è molto radicato nel senso comune provoca domanda di soluzioni semplici che non arrivano, che non possono arrivare e quindi atteggiamenti di semplificazione ulteriore. Noi oggi sappiamo che la crisi sanitaria che stiamo vivendo, è parte di una mutazione ecologica che ormai è irreversibile e duratura, è una mutazione ecologica e antropologica e che ci impone di ripensare il nostro modello di sviluppo.

Le due grandi encicliche di Papa Francesco, la Laudato sii e la Fratelli tutti, sono una potente analisi del nostro tempo e una potente delineazione di un nuovo paradigma per affrontare la crisi e la complessità del nostro tempo. Sono una analisi scientifica del nostro tempo di straordinaria potenza.

E oggi stiamo sperimentando questa caratteristica: mai è stata così grande la nostra potenza tecnologica, conoscitiva, anche nel campo della medicina. E mai è stata così grande la nostra vulnerabilità sul piano globale e questo è un paradosso che fonda un altro paradosso. Più aumenta l’interconnessione fra tutto e tutto, l’interdipendenza, quello che noi chiamiamo globalizzazione, più diminuisce la solidarietà. E questo aumenta la condizione di estrema fragilità vulnerabilità che si nasconde come nocciolo, come nucleo della nostra incrementata e simultanea potenza e interdipendenza, è proprio ciò che caratterizza la crisi del nostro tempo. Dobbiamo elaborare una coscienza e una cultura capace di concepire questa nostra condizione.

Siamo sulla stessa barca. Questo enunciato straordinariamente iconico della nostra condizione pronunciato da Papa Francesco nel primo lockdown è la condizione reale di una umanità che per la prima volta nella storia evolutiva è giunta a formare una comunità di destino oggettiva e che dipende proprio dal pericolo che accomuna tutti quanti noi.

Pericolo che tante volte deriva dallo sviluppo delle nostre tecnologie e dalla loro applicazione alla nostra casa. La complessità del nostro tempo fa sì che i grandi problemi della povertà, della miseria, della fragilità non possono essere disgiunti dal problema della cura della nostra casa comune, che sia la terra o che siano i territori in cui vivono le nostre comunità.

Il nostro sistema economico e sociale si è trovato impreparato ad affrontare gli eventi immensi e imprevedibili che stiamo vivendo. Sono alcuni decenni che siamo consapevoli della ambivalenza di questa interconnessione interplanetaria che chiamiamo globalizzazione. Ma l’abbiamo lasciato sullo sfondo delle paure epocali enunciate o annunciate dai profeti del nostro tempo o dagli analisti, ma non erano mai entrati globalmente, così intensamente nella esperienza quotidiana, neanche Chernobyl, neanche le crisi finanziarie. Invece questo piccolo virus, nato in una regione finora sconosciuta della Cina è entrato nella esperienza quotidiana e ci ha fatto percepire come siamo accomunati da questa fragilità. Come ciò che accade e che facciamo in un punto della terra o in una parte della nostra comunità ha dei riflessi sul destino di altre persone di altri esseri umani della nostra terra.

La crisi ha rivelato i bisogni essenziali verso i quali va riorientata la politica e l’economia, i settori su cui fare leva per rilanciare una cura della casa delle comunità dopo la pandemia: la salute, la prevenzione, l’igiene, la cultura, le infrastrutture urbane (vediamo l’inadeguatezza dei nostri progetti urbanistici), le abitazioni, l’alimentazione, l’agricoltura.

Si sta delineando per prendere cura della nostra casa comune e delle nostre piccole case della comunità la necessità di promuovere quella che abbiamo definito una economia della vita, una economia che si interseca con il traguardo della sostenibilità e con il passaggio ad una società della cura, cura di sé, cura degli altri, cura del mondo.

E a questo proposito in questo scenario i sistemi territoriali, i nostri territori, le nostre case diventano ancora più importanti e strategici anche per il futuro. Non è vero che i sistemi territoriali sono destinati ad essere trascurati all’interno di una prospettiva globale, perché sono questi il punto di mediazione tra le logiche locali e quelle globali.

La malattia del nostro tempo è la semplificazione, siamo figli dell’abitudine a pensare che le cose abbiano una spiegazione semplice e questa siamo ormai abituati a pensare che è riducibile alla quantificazione, agli algoritmi. Ma la quantificazione esasperata, e lo tocchiamo con mano anche come è raccontata la nostra crisi attuale, è la ragione del fallimento della nostra società, del nostro modello sociale, economico, politico, perché ignora le attività non monetizzabili, gli aiuti reciproci, l’uso dei beni comuni, la parte gratuita dell’esistenza, il tessuto stesso delle nostre vite, la gioia, l’amore, la sofferenza, la dignità, la fraternità. Queste diventano lo scarto muto della politica e dell’economia, non hanno diritto di cittadinanza, perché non sono nella logica della crescita, semmai rimandate al dopo in una ottica di redistribuzione di ciò che rimarrà.

Trovo che per rigenerare un nuovo paradigma, come evoca anche Papa Francesco, per il futuro sostenibile della nostra umanità saranno sempre più importanti quelle “oasi di fraternità”, come le abbiamo definite con Edgar Morin, che anticipino un modo di abitare le nostre comunità, le nostre case della comunità, della salute, riconoscendo la complessità di dimensioni irriducibili di cui è fatto il tessuto delle nostre vite.